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      Era in piedi da mattina a sera. Ci si trovava benissimo a patto non avessero detto ch'egli non lavorava. Si trovava in grande dipendenza dal fratello maggiore e dal minore due persone che avevano assorbite tutte le qualità di intraprendenza ch'erano state disponibili per la famiglia Linelli. A lui non ne era rimasto niente. Ed essi erano stati la colpa della sua rovina perché fino ad un certo punto egli s'era limitato a condurre avanti la baracchetta ereditata dal padre ricavandone quel piccolo utile che gli occorreva. Ma intanto essi avevano scovato fuori affari inauditi con l'America, il Giappone, la China e che so io ed egli volendo far vedere che valeva quanto loro s'era messo anche lui nelle cose grandi che lo avevano subito subito schiacciato. «Ebbi sfortuna!» diceva alla moglie. «Perché di attività non mancai mai. Come lavoro ora, lavorai sempre». E la buona signora stava attenta di non lasciar trasparire il sorriso che le faceva il solletico su tutta la faccia. Ella, ora che gli era vicina tutto il giorno, sapeva com'egli solesse lavorare. Stava a guardare gli operai che stivavano casse e barili facendoli chiacchierare e ripetendo i loro motti abbelliti dalla loro loquela natia. Poi andava a vedere la chiesa di S. Micel e la laguna e la palude e girava poi dall'altra parte a contemplare la chiesa degli Angeli e il grande canale di Murano e la palude da quella parte più alta e più sconsolata ancora. Egli dalla vita non domandava altro. Di domenica andava in sandolino vogato dal giovine Sandro sotto poppa d'inverno una bottiglia di rum, d'estate un'aranciata fresca.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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