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      Erano da quattr'anni a quel posto e ci erano arrivati nudi e crudi come Dio li aveva fatti. Ora, invece, mangiavano tutto il santo giorno polenta in varie forme condita con quello che restava della tavola padronale ma avevano tutto il necessario per coprirsi e scaldarsi. Cimutti - così correva voce in Serenella - faceva una vita meglio che discreta. Guadagnava con le ore straordinarie poco sotto la trentina di lire alla settimana ma ne mangiava quasi la metà per sé. La famiglia sarebbe rimasta perciò veramente povera se la Lisa non avesse lavorato per suo conto. Lavava e cuciva per i padroni e passava parecchie ore del giorno nella casa padronale a prestare servizii. A forza di lavoro la sua faccina diventava sempre più piccola mentre il suo corpo - cosa strana - diventava più grosso. Ora, coperta di cenci, di nuovo china ad attizzare il fuoco, pareva una botticella. Il fazzoletto in testa legato sotto il mento le rendeva anche più piccola la faccina esangue. E il signor Giulio vedendola perché ella, per rispetto, subito non appena lasciato il fuoco, alzava a lui il capo, ricordò l'ultima malattia della Lisa. Indisposta essa s'era trascinata per una settimana fra mastello e scafa, poi una mattina s'era messa ad urlare dal male e l'avevano portata all'ospedale. Ci era rimasta per un paio di settimane e ne era ritornata la faccia un po' più colorita e il corpo un po' più magro. «E state sempre bene, ora, Lisa?» domandò il signor Giulio. «Sì, signore, sempre!» disse essa con un mite sorriso che pareva di soddisfazione.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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