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      Ed il signor Giulio sentiva un certo avvilimento dalla evidente superiorità di Nino. E la signora Anna per consolarlo gli diceva: «Vedi! Questi uomini d'affari son fatti altrimenti di noi. Anche se tu avessi compreso ch'era più vantaggioso di cessare di usare dei sacchi quale imballaggio, tu non avresti accettate le tue proprie conclusioni perché avresti dovuto cominciare dal gettar su una strada tante poverine». Il signor Giulio non accettava il biasimo neppure in tale forma di lode: «Io sono prima di tutto un uomo di affari» asseriva lui. «Se vedessi che l'interesse della casa esigerebbe la rovina di tutti i suoi addetti io decreterei tale rovina senz'alcuna esitazione». Non c'era verso di dirgli la verità in alcuna forma. Eppure era saputa da molti in casa. Italia, Bortolo e tanti altri trovavano che Giulio era un buon diavolo ma che aveva avuta una bella fortuna di nascere fratello di Nino e di... Nell'intimo di Giulio doveva esserci anche un sospetto di tale verità perché troppo spesso concludeva i suoi calcoli con l'osservazione: «Già, son cose che devono decidere a Trieste perché loro sanno quello che vogliono. Io non ho qui i libri». E perciò la presunzione del signor Giulio non danneggiava nessuno. Non il commercio della casa perché egli, non avendo i libri nulla decideva e non la vita di famiglia perché tutti lo amavano e rispettavano come l'uomo che col suo entusiasmo per la Laguna - il grande divertimento che in Serenella assolutamente non mancava - rendeva tutti attenti alla felicità che là si godeva di grande vista e di buona aria.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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