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      Ad onta del suo bolscevismo l'Olivi fu negli affari esattamente quello ch'era stato suo padre, accorto, attento e duro. Gl'impiegati erano stati viziati da me che non ero bolscevico. Lui li rimise all'ordine. Li obbligò a tenere esattamente l'orario e, quando poté, ridusse le loro paghe.
      Presto m'accorsi che con lui non dovevo parlare ma che di lui potevo fidarmi. Dava lui l'esempio di un'attività indefessa. Tanto che io cominciai a prendermela molto comoda. Dapprima, un certo giorno di cui mi ricordo ad onta che in esso non fosse successo proprio niente altro che un movimento nel mio animo pensai: "M'innalzo ancora se regno senza governare". L'Olivi per qualche tempo mi sottoponeva per la firma qualche lettera importante. Io firmavo dopo un'esitazione con una smorfia che voleva dire: È quasi bene. Se volessi rifarla, la farei ancora meglio, ma per non sottopormi a tanta fatica, con un sospiro firmavo.
      L'unico affare cui l'Olivi rifiutò l'attenzione dovuta fu quello del sapone. Le corone non arrivavano mai ed io un giorno esclamai: «Ma insomma, non si potrebbero costringere quei viennesi di fare il loro dovere? Non abbiamo vinto noi la guerra?». Egli rise di cuore, tanto di cuore ch'io compresi che fra quelli che avevano vinto la guerra io non c'ero e arrossii.
      Io sono molto sensibile a tali rimproveri. Non dissi nulla perché m'occorse del tempo per fare il conto che allo scoppio della guerra io avevo avuto 57 anni. Il giorno appresso gli domandai: «Lei crede che se alla guerra mi fossi presentato quale volontario m'avrebbero accettato quale generale?


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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