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      Cortesemente gli dissi anche la meschina cifra di utile che avevamo raggiunta l'anno precedente. Dunque l'affare per me non aveva importanza ma non ne aveva neppure per l'Olivi ch'era tanto più povero di me.
      Fin qui avevo saputo domare la voce turbolenta che dall'imo delle mie viscere mi urlava: «Come sei buono, come sei buono!». Ma pare che attraverso alla mia bocca quel suono sia finito pure per coll'essere percepito dal povero Valentino. Aveva però abusato della mia bontà. S'era messo a provarmi che l'affare aveva una grande importanza perché poteva avvenire che un anno dell'esercizio desse per risultato una forte perdita e allora essa sarebbe stata resa più sensibile dall'esborso del salario all'Olivi.
      Ma che c'entrava questo? Perché tutt'ad un tratto, ora che aveva sentito che l'affare era stato concluso e per quanto non ci credesse, citava gli argomenti che militavano contro la sua conclusione? Forse per intendere meglio l'affare? Io non so neppure come il mio suono d'impazienza e d'ira sia potuto essere stato percepito da lui perché io non dissi altre parole pacate: Conoscevo la mia ditta e i miei affari e perciò potevo escludere che ne derivasse una perdita trattati come erano da un uomo prudente come l'Olivi. Ma la mia impazienza irosa dovette trapelare chiara ed offensiva perché tutt'ad un tratto la faccia del povero Valentino di solito immobilizzata, assorta nell'attenzione intensa del buon impiegato, si agitò, si sbiancò ed egli andò deciso alla porta. Era tanto offeso che pareva volesse negligere ogni buona forma e uscire senza una parola.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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