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      Al letto di morte di Valentino e mai prima il mio rimorso fu chiaro, evidente, tanto che mi sentivo molto infelice. L'Olivi aveva tenuto parola con la sua solita serietà e Valentino mai nulla aveva appreso del tiro che gli avevo giocato. Proprio per ciò con la solita debolezza di noi miscredenti che quando vediamo morire qualcuno crediamo che arrivati al di là apprendano tutto, avrei voluto confessarmi a lui e domandargli perdono di quel tiro e anche di qualche altro che gli avevo giocato come per esempio qualche parola contro di lui che avevo detto a sua moglie Antonia che però - a quanto pare - non ne aveva sentita l'influenza. Ma con lui non mi lasciarono mai solo. Egli aveva già l'udito molto duro ed io ero disposto a confessarmi ad uno che m'abbandonava definitivamente ma non dinanzi a tanti che rimanevano con me a deridermi o a rimproverarmi.
      E devo dire - confessandomi qui - ch'io mai ebbi una grande simpatia per il povero Valentino. Credo non avrebbe potuto essere altrimenti perché egli era molto brutto con quel suo busto grasso e le gambe corte ed io credevo egli stesse peggiorando la mia razza. Ma perciò fuori che per rimorsi sopportabilissimi, io, al suo letto di morte, mi sentii abbastanza freddo e capace di osservare tutto con occhio sereno. Mi parve che tutti a lui d'intorno avessero maggior voglia di confessarsi che lui stesso che pure vi era esortato dalla moglie religiosissima. Ho paura che nelle stanze dei moribondi ciò si avveri frequentemente.
      Augusta aveva preso parte al tiro giocato al povero Valentino e mai ne ebbe rimorso.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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