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      Ma non ero preparato alla parola che volevo dirgli, non vi ero preparato affatto. Firmato il contratto e volendo allontanarmi immediatamente, con gesto istintivo porsi all'Olivi la mano come deve fare un gentiluomo quando si sente battuto al giuoco. Il gesto si fa anche quando si ha il sospetto di essere stato barato e non si sa darne la prova.
      L'Olivi mi strinse la mano e disse: «Vedrà, signor Zeno. Ella non avrà mai da rimpiangere di aver firmato questo contratto. Appena ora io spero di riportare la sua ditta non all'antico lustro, perché gli affari non possono più essere quelli, ma ad un'attività ordinata e regolare che le assicuri l'esistenza».
      Le buone parole non mi placarono affatto. Che poteva importarmi un po' più o meno di rendita? Mi gettavano fuori dal mio ufficio dove ero stato tanto felice solo finché l'Austria m'aveva liberato dei due miei padroni e volevano consolarmi. Era troppo.
      Con voce strozzata dissi: «Certe clausole non appartenevano in quel contratto. No, davvero! Bisognava ricordare che si aveva da fare con un vecchio che per legge di natura presto avrebbe abbandonato i proprii affari. Quella clausola lì che appena appena mi concede di fiatare quando potrei desiderare che un affare sia fatto o che un altro non lo sia, dovrebb'essere cancellata».
      Il notaio saltò su spaventato. A dire il vero io quel notaio non lo ricordo neppure perché non lo vidi. So che a quel posto tanto importante sedeva qualche cosa di molto giovine, biondo o rosso, vivace come nessuno pensa possa essere un notaio.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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