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      Insomma Alfio è un giovine ch'è per me molto più difficile di quanto non sia stato mai io per mio padre. Mio padre mi rimproverava di ridere di tutte le cose ed anche mio figlio mi rimprovera la stessa cosa. Lasciando stare l'amarezza che deve provocare in me tale accordo l'imposizione di mio figlio mi è molto più dura di quello che mai fu quella di mio padre, che in fondo mi faceva ridere, mentre quella di mio figlio è proprio efficace, dura. Io mi faccio serio e quando mi capita una bizzarria in testa faccio del mio meglio per eliminarla. Sparisce ed io le guardo dietro con rimpianto. Taciuta perde ogni efficacia e la vita trascorre più monotona e triste.
      Io credo in verità che mio figlio ce l'abbia con me e anche con sua madre. Ad ogni lieve dissidio si sente stridere un risentimento nella sua voce un po' debole. Subito dopo la guerra ce l'aveva con noi in nome del comunismo. Egli non era affatto comunista ma trovava sinceramente che noi eravamo dei malfattori perché occupavamo tanto spazio a questo mondo (tante stanze nella nostra casa) e perché sequestravamo tanta parte di patrimonio che sarebbe stata utile a tutti. Augusta tremava all'idea che forse un giorno egli sarebbe arrivato a casa con degli inquilini nuovi. Ma egli non conosceva a questo mondo alcun operaio. Camminava per le vie solitario in quella volta occupato della giustizia sociale, poi subito dopo con lo stesso passo dell'arte, della personalità. E fu là che io un poco risi di lui, ed ebbi torto. Si parlava solo di teorie perché egli ancora non dipingeva.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





Alfio