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      D'altronde compiangevo me, se l'unico mio figliuolo al vedermi morto avesse dovuto dare un suono di sollievo e detto: Uff! E Alfio era di una radicale sincerità di quelle che esigono la parola precisa. Mentre io avrei voluto morire compianto benché con la moderazione voluta.
      Augusta mi raccontò che Alfio si dedicava solitariamente alla pittura. Usciva alla mattina di casa con la sua mappa sotto il braccio e i suoi colori a tempera. Si portava con sé qualche cosa da mangiare. Non aveva nessuno che gl'insegnasse per paura che un maestro riuscisse a falcidiare la sua personalità. Quando il sole era calato ritornava a casa stanco morto. Tuttavia usciva ancora una volta e andava a discutere di pittura coi suoi amici al caffè. Aveva ereditato da me solo questa parte della sua giornata. Il resto non era mio, ma non era neppure del nonno che gli avevo scelto e neppure della nonna. Dove era andato a fornirsi di quella sua pittura, e di quella sua solitudine? La personalità? Io che avevo invano tentato di somigliare agli altri non ci avevo mai pensato. La ribellione? Quando ne sentii il desiderio me ne pentii subito. E suo nonno Giovanni non seppe che cosa fosse, lui che tanto comodamente, grosso e grasso come era, sedeva sulla schiena degli altri. Sentire innata la ribellione, come avveniva ad Alfio, è un vero segno di debolezza.
      E anche la sua figura egli la aveva inventata perché nessuno dei suoi antenati la aveva avuta. Lungo, allampanato, una linea curiosa dal tronco che tende a retrocedere, si pente più in su e per avanzare forma una rotondità che non è una gobba, mandando la testa in avanti che perciò non è mai bene eretta e costringe i suoi occhi a volgersi in alto per guardare in faccia l'interlocutore della sua stessa statura.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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