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      E c'erano anche dei tratti che segnavano che le case della poveraglia avrebbero potuto ancora moltiplicarsi. V'erano certe torricciuole sbandate che col tempo si sarebbero potuto adattare ad abitazioni.
      Fu un periodo molto gradevole nelle mie relazioni con Alfio. Io, sinceramente lo ammiravo. Come facendo le sole persiane di una casa m'aveva indotto a costruire tutto un paesaggio! Era veramente un'arte la sua. Un'arte moderna, e intendendola io ringiovanivo.
      Con una profonda soddisfazione ne parlai ad Alfio. Egli stette ad ascoltarmi. Però con la vigoria giovanile che lo distingueva interruppe le mie lodi che così andarono perdute: Il suolo visto da un dato posto e a quell'ora aveva proprio quel colore e non occorreva il coraggio ma l'occhio analizzatore del pittore per attribuirglielo. «Guarda, guarda meglio» mi disse.
      Io volli riprendere la mia analisi e mi misi a parlare proprio di quelle case che non c'erano ancora, ma che si vedevano in formazione.
      Egli protestò ridendo: «Ma quelle sono case, vere case e basta guardarle per indovinarle. Saperle guardare. Bisogna ricordare che la luce non sempre rivela ma talvolta nasconde, offusca. Guarda su quella casa che tu dici esserci ancora un lieve segno bruno che accenna all'esistenza di una finestra».
      Mi parve più sopportabile il quadro che il commento. Continuai a guardarlo con piacere ma quando se ne parlava, usavo delle stesse parole che diceva Alfio e non mi curavo di dire esattamente quello che ne pensavo io. Ero però certo che finì che io su quel paesaggio avrei potuto mettermi a camminare con sufficiente sicurezza senz'aver da temere di smarrirmi.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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