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      Ma poi avendo rivisto più volte il Ducci finché il Cima rimase a Trieste scopersi ch'egli faceva dei grandi progetti. Anelava di fare un viaggio in Norvegia. Certo era possibile che facendo tanti progetti di qui a 50 anni egli potesse aver dimenticato anche quello della Norvegia, mentre io che evito i progetti perché m'inquietano, avrei potuto - campando - ricordarmi del suo tanto strabiliante.
      Ma la prima volta che Cima fu a pranzo da me raccontò una storia antica della nostra giovinezza ch'egli non sapeva tutta, ch'io completai e che ci ubbriacò addirittura dal ridere e che m'indusse nell'abbandono della gaiezza ad offendere il mio povero Alfio in modo addirittura irreparabile.
      Bisogna ricordare che quando il giovinetto Cima arrivò a Trieste io stavo guardandomi attorno per trovare degli esempi di forza e di risoluzione che mi guarissero della debolezza di cui cominciavo a soffrire tanto. Dove trovare un esempio migliore del Cima? Lui che aveva sempre quell'aspetto di padrone dove andava e, sebbene tanto meno intelligente di me, non conosceva imbarazzi e dubbi, poteva pur giovarmi. Certo aveva anche l'aspetto della giovinezza e della forza con quel suo barbino alla spagnuola, con quegli occhi neri e quei suoi capelli abbondanti e ricciuti. La bellezza e la forza non potevo imitare, ma non credevo che da quelle dipendesse l'ascendente ch'esercitava e che gli dava tanta tranquillità, tanta sicurezza, tanta felicità. Era il padrone perché si sentiva tale.
      Intanto mi pareva che la pratica di ammazzare delle bestie dovesse aver contribuito a creare la forza del Cima.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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