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      Era veramente la mia debolezza - la più forte - quella di non saper ammazzare delle bestie. Arrivava questo mio ribrezzo al punto - lo ricordo facilmente visto che qualche cosa di simile, attenuata, la sento tuttora - che una volta, di sera, prima di coricarmi, arrivai a dare un lieve colpo ad una mosca che mi tormentava. La bestiola, ferita, arrivò a sfuggirmi ed io invano la cercai volendo finirla per compassione. Non la trovai e durante la notte più volte pensai al povero animale che doveva agonizzare in qualche canto recondito della stanza pieno di dolore e di rancore. Allora, guidato dal Cima, risolsi di abituarmi a tali rimorsi. Pagai la forte tassa per il diritto di cacciare e tutto un bel costumino come si usava allora, da cacciatore con un cappellino piumato. Lo schioppo mi fu prestato dal Cima.
      Si cominciò con una caccia in palude. Si andò a certe paludi presso Cervignano. Durante il viaggio io avevo tentato di riempire il mio cuore di odio per le bestie. In fondo quegli uccelli che io andavo ad uccidere erano predatori essi stessi. Vivevano di animali più piccoli di loro. Dicevasi anche che quando avevano da fare con una bestia pericolosa erano capaci di sollevarla in alto e lasciarla ricadere per ucciderla. Avevo poi scoperto che se io ammazzavo della selvaggina restavo tuttavia migliore del Cima il quale come un vero cane da caccia non gustava la selvaggina. Io almeno potevo poi soffocare i miei rimorsi con un buon boccone. Tuttavia ero molto agitato e mi pareva tanto importante la prima mia azione violenta contro gli animali che fumai una quantità di sigarette dicendomi che poi conquistato il forte volere - quello dell'assassino - non ne avrei fumate altre.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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