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      Volevo raccontare avventure di poche settimane fa e mi ritrovai tanto lontano. Grande importanza hanno le cose lontane in confronto a quelle di poche settimane prima. Un odore di vino antico dagli elementi equilibrati che si ricordano tutti non appena avvicinano il naso. E c'è mia moglie che pretende che non ricordo nulla. Certo se mi si domanda ove ho lasciato la penna d'oro e gli occhiali, resto sorpreso che si domandi uno sforzo simile, ma le cose antiche vengono a me da sole, in quantità, adorne da tutti i particolari.
      Ed eccoci in palude nascosti ciascuno in una botte immersa nel fango a certa distanza uno dall'altro. Orazio m'aveva raccomandato di tenermi tranquillo e di non dar segno di vita perché ci sacrificavamo a tante ore di soggiorno nell'umidità di quella botte per truffare gli uccelli sospettosi che molto prima di muoversi esaminano la strada che devono percorrere coi loro occhi piccoli ma potenti. Un'altra ragione per odiarli, tanta prudenza. Al di sopra delle lontane montagne mi parve che il cielo cominciasse a sbiancarsi. Era l'alba? Ed io mi facevo inquieto. I processi lenti mi spazientano. Come potevo accelerare quello durante il quale dovevo restare là in piedi in un posto tanto incomodo? Quel Cima! Avrebbe potuto procurarmi una botte più grande e metterci dentro almeno una sedia. Tentai di guardare il mio orologio. Era quello un modo di far camminare più presto il tempo. Ma tutto il chiarore di quelle stelle immote che mi guardavano, esempio enorme di pazienza, non bastava ad illuminare il piccolo quadrante.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





Cima