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      E si rideva della mia bestialità di aver voluto andare a caccia e della sua di avermici condotto. Poi si rise solo della mia bestialità perché Augusta cominciò a parlare dei miei lunghi sforzi per svezzarmi dal fumo. Si concluse, a mia lode, col convenire che la malattia era guarita visto che mai ne parlavo benché sempre fumassi. Stimo io! Avevo pur dovuto costringere la malattia a non manifestarsi altro che in un soliloquio ch'era subito dimenticato, propositi non scritti e non detti, non inseriti con alcun segno né nel calendario né nel quadrante dell'orologio, che mi lasciavano in uno stato abbastanza aggradevole di libertà. Diamine! Vivendo tanto si guarisce di tutte le malattie.
      Ora io a quel pranzo non avevo bevuto e m'ero persino astenuto dalla buona carne che tutti avevano mangiato. Niente che lo riscaldasse era stato gettato nel mio povero sangue. Bolliva dal ridere. Ridevo di me ch'ero partito per ammazzare delle bestie e che tiravo tanto bene da non aver colpito con un solo pallino il povero Cima. Poi per offendere Cima mi corressi: Ero partito per tirare sulle bestie e le bestie avevano finito col tirare su di me. E Cima trovò anche lui qualche cosa che non ricordo, della quale tutti risero meno che me perché era una povera cosa per ridere della quale avrei avuto bisogno di farmi il solletico. Ma non ci fu risentimento alcuno fra di noi. Soltanto com'era naturale non si rise altro mentre io avrei avuto il desiderio che continuasse ancora. Era un esercizio sano, e fra gli esercizi violenti l'unico che fosse permesso ai vecchi.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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