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      E per prolungarlo mi misi a parlare dei quadri di Alfio, una cosa di cui avevo riso in passato benché amaramente, di cui poi sorrisi per il mio sforzo di mettere io su quella carta tutto quello che non c'era e che avevo finito con l'amare pur sempre ridendone. Si parlava tanto di terremoti in quei giorni ed io, scoppiando dal ridere, raccontavo ch'ero corso a quella carta per vedere se tutte quelle casette fossero crollate: «No, non lo erano. Parevano crollate ma erano esattamente come prima».
      Non mi trattenne neppure il pallore che subito scolorì la già bianca faccia di Alfio. L'attacco era stato così inaspettato ch'egli aveva lievemente alzata la testa dal piatto per figgermi in faccia i suoi dolci occhi che mi studiavano per intendere se sotto l'apparente derisione non ci fosse stata tutt'altra intenzione. Io non intesi nulla. Mi sentivo innocente: Avevo voglia di ridere e a questo scopo qualunque soggetto era buono.
      Ma Alfio scoppiò: «Senti, se lo vuoi io ti restituisco il denaro che mi desti e riprendo il mio lavoro».
      Ma io protestai: «E chi mi pagherà il lavoro che ci misi io?». E visto che il Cima con la sua mente lenta non arrivava ad intendere quello ch'io volessi dire spiegai che io, con uno sforzo grande e continuato, avevo completate e popolate le case di mio figlio e che ora ch'erano messe in ordine non volevo più restituirle. Adesso, completato da me, il quadro mi piaceva. E non appena mi fossi trovato nel pieno possesso della mia salute (già da un mese prendevo a questo scopo un tonico) mi sarei dedicato all'altro quadro che ancora tenevo celato per non essere indotto a tanto sforzo.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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