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      Alfio tentò di attaccarmi: «Sai, quello che tu devi conquistare con uno sforzo, altri, meglio preparati di te all'arte lo fanno senza sforzo alcuno, guardando, come si guarda la natura stessa».
      Io m'arrabbiai e negai che lo sforzo fosse reso necessario dalla mia debolezza. M'arrabbiai tanto che dimenticai ogni mio buon proposito e diedi a mio figlio dell'imbecille. Me ne pento e me ne vergogno. Com'è strano il rapporto tra padri e figli! Non vale a migliorarlo nessuno sforzo. Io che sempre avevo confessato di non intendere nulla di pittura m'arrabbiavo perché mio figlio gridava d'essere del mio stesso parere.
      E gli altri fecero peggio. Valentino con quella sua lentezza di buon amministratore disse: «È certo che un artista non va la vera via se non piace a molti».
      Alfio disprezzava tanto l'opinione di Valentino che non rispose. Ma Antonia spiacente del secondo intervento del marito dopo che il primo era finito tanto male tentò di avvisarlo del pericolo tirandogli la manica. Valentino, poco accorto, si drizzò la giubba esaminando con curiosità perché si tendesse. E Alfio dopo una piccola esitazione disse alla sorella: «Ma lascialo parlare. Che vuoi mi faccia?».
      Una nuova offesa cui s'aggiunse presto un'altra gravissima. Orazio, dopo pranzato, volle vedere il dipinto. Alfio dichiarò che non voleva assistere a tale esame e s'avviò alla sua stanza. Ma poi non seppe sottrarsi allo strazio e quando Orazio dinanzi a quelle cose si mise a ridere tenendosi la pancia che non aveva, Alfio apparve alla porta del mio studio, s'appoggiò allo stipite della porta e stette a guardare intento, ben lontano dal riso, ma domatosi tanto che non parve soffrisse.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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