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      Era una compagnia di gente dai cinquanta anni in su, che per rispetto a mio padre mi ammettevano fra di loro qualificandomi della carezzevole designazione di puledro.
      Io, naturalmente, portavo ai vecchi il rispetto che l'epoca imponeva e ansioso aspettavo d'imparare persino l'amore da loro. Ma avevo bisogno di un chiarimento, e per averlo, gettai nella conversazione le seguenti due parole: «Io, in un simile caso...». Mio padre subito m'interruppe: «Ecco che ora anche le pulci vogliono grattarsi».
      Ora che sono vecchio non si rispettano che i giovani, così che io sono passato per la vita senza essere stato rispettato mai. Da ciò dev'essermi derivata una certa antipatia per i giovani che vengono rispettati ora e per i vecchi che si rispettavano allora. Sto solo a questo mondo io, visto che persino la mia età fu per me sempre un'inferiorità.
      E davvero io credo che amo tanto Umbertino perché è tuttavia fuori dell'età. Adesso ha sette anni e mezzo e non ha ancora nessuno dei nostri vizii. Non ama e non odia. La morte del padre fu per lui piuttosto un'esperienza curiosa che un dolore. Lo sentii io, alla sera del giorno stesso della morte di suo padre domandare alla sua bambinaia, pieno di sorpresa e di curiosità: «Ad un uomo morto si può dunque dare persino un calcio senza che s'arrabbi?». Non aveva alcuna intenzione, lui, di dare dei calci al padre per vendicarsi delle lunghe lezioni ch'egli gli aveva propinate. S'informava. Tutta la vita per lui non era altro che un panorama ben staccato da lui, da cui non poteva provenirgli né male né bene, se non gli si buttava addosso proprio a lui, ma solo delle informazioni.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





Umbertino