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      Domandai ad Augusta: «Che ti disse?» fingendo di destarmi allora per dar prova dell'innocenza assoluta, quella che è tanto vicina al sonno.
      Ma quando essa mi raccontò che Antonietta le aveva raccontato che sentendomi vantare la gioia di quella serata, le era parso che addirittura le fosse pervenuto un rimprovero dalla bocca stessa di Valentino, io ricaddi sul guanciale vinto. Lottai! Io avevo solo voluto dire che quell'ora era stata tanto gradevole che subito m'ero sentito meglio disposto al sonno. Non si trattava mica di una gioia che potesse oltraggiare il lutto.
      Con un sospiro Augusta s'adagiò nel suo letto dopo di aver avvicinata la poltrona su cui dormiva ben coperta la sua cagnetta. Mormorò: «Sai bene come è fatta».
      Mi parve volesse rimproverarmi di averla fatta io così. E stetti zitto. Per quella sera non seppi protestare. E vidi della mia vita tutta la parte ch'era stata dedicata ai rimorsi e ai rimpianti mentre a dire il vero non sapevo scorgerci dei delitti. Forse c'erano stati ma io non li ricordavo come non li ricordava Antonietta cui era spettata la parte meno gradevole dell'eredità. Tanti ereditano dal padre il naso lungo mal disegnato e lasciano ai fratelli la sua bella statura o gli occhi espressivi. A lei toccava i miei rimorsi da lei tanto più insopportabili perché del tutto irragionevoli.
      Presto la respirazione di Augusta - fattasi più rumorosa con gli anni - m'annunziò ch'essa già dormiva. Nell'oscurità le tirai la lingua come un ragazzo male educato. Tanta innocenza mi parve poi eccessiva.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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