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      Più spesso esagerai le loro qualità. Però mai le dichiarai principesse del sangue. Una designai come duchessa per non dire che si trattava della moglie di un commendatore. Avrei potuto dirla moglie di un cavaliere e non ci sarebbe stata indiscrezione, ma che farci? Amavo di apparire importante a Carlo. Eppoi mi sentivo tanto bene nella sincerità che mi pareva ch'eccedendo fossi ancora più sincero. Così forse scoprivo quello che avrei fatto se gli altri me lo avessero permesso. La confessione diventava più sincera ancora.
      E Carlo fu molto discreto.
      Ogni domenica egli era a cena da noi. Per me era quella la cena migliore della settimana. Egli era tanto tetragono alla bestialità altrui che non sentiva il malumore di nessuno finché non era proprio gridato e perciò era capace di ridere molto anche se seduto accanto al lutto di Antonietta. Non lo offendeva perché assolutamente non lo vedeva. Ed io lo seguivo finché potevo. Certo non c'era nessun momento in cui io sapessi dimenticare il lutto di Antonietta e il rancore di Alfio come faceva lui. M'era più facile se poi c'era il Cima. Eravamo più forti in tre contro la musoneria di due e la tristezza imbarazzata della povera Augusta capace di lagnarsi più tardi a quattr'occhi con me ma incapacissima di ribellarsi alla propria figliuola.
      Ora una sera si parlò della fedeltà dei mariti. Naturalmente capitò subito fuori quella di Valentino e non capisco con quale senso perché oramai era assoluta. Augusta ebbe il cattivo gusto di menzionare la mia fedeltà e se ne parlò abbastanza a lungo perché allora Antonietta s'avvide che il suo fedele era morto e pianse quella fedeltà morta mentre Augusta era stata tanto fortunata che il suo marito docile, buono e fedele era tuttavia vivo.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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