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      Ed io molto ammirai quel busto e pensai per truffare meglio madre natura che mi sorvegliava: "Certo, io non debbo ancora morire perché se questa bambina volesse io sarei tuttavia disposto di procreare".
      La mia faccia dovette prendere un aspetto curioso guardando quell'anfora. Ma escludo sia stato quello di un satiro perché pensavo alla morte. E invece altri mi vide in dosso il desiderio. Come m'accorsi poi la fanciulla che doveva appartenere a famiglia agiata era accompagnata da una vecchietta, fantesca che l'accompagnò quando essa uscì dal veicolo. E fu questa vecchia che passandomi accanto e guardandomi, mormorò: «Vecchio satiro». Mi dava del vecchio. Chiamava la morte. Io le dissi: «Vecchia imbecille». Ma essa s'allontanò senza rispondermi.
      IL VECCHIONE
      (Sono le prime pagine del romanzo che Italo Svevo s'era accinto a scrivere nell'estate 1928.)
      La cosa avvenne quest'anno, nell'aprile che ci apportava uno dopo l'altro dei giorni foschi, piovosi, con brevi interruzioni sorprendenti di sprazzi di luce e anche di calore.
      Rincasavo di sera in automobile con Augusta dopo una breve gita a Capodistria. Avevo gli occhi stanchi di sole ed ero incline al riposo. Non al sonno ma all'inerzia. Mi trovavo lontano dalle cose che mi circondavano e che tuttavia lasciavo arrivare a me perché nulla le sostituiva: andavano via prive di senso. S'erano fatte anche molto sbiadite dopo il tramonto, tanto più che ormai i verdi campi erano stati sostituiti dalle grige case e le squallide vie, tanto conosciute che arrivavano previste, e guardarle era poco meno che dormire.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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