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      La Dondi era di sei anni più vecchia di me. Ah! Ah! Ah! Se fosse capitata qui, invece di sorridere del pericolo, come faceva quella giovinetta, traballando e zoppicando sarebbe finita sotto le nostre ruote.
      Anche ora la luce di questo mondo si alterava come se mi fosse improvvisamente pervenuta attraverso ad un prisma. Non subito m'associai al riso di Augusta. Ma bisognava! Altrimenti avrei rivelato l'importanza della mia avventura e sarebbe stata la prima volta ch'io ad Augusta mi sarei confessato. - Già, già, non ci pensavo. Tutto si sposta ogni giorno un pochino, ciò che in un anno fa molto e in settanta moltissimo. - Poi ebbi una parola sincera. Fregandomi gli occhi come chi ha dormito aggiunsi: - Dimenticavo di essere vecchio io stesso e che perciò tutti i miei contemporanei son vecchi. Anche quelli ch'io non vidi invecchiare e anche quelli che restarono celati e non fecero mai parlare di sé, non sorvegliati da alcuno, ogni giorno pur invecchiarono. - Stavo diventando infantile nello sforzo di celare quel lampo di gioventù che m'era stato concesso. Bisognava cambiare di intonazione, e con l'aspetto più indifferente domandai: - Dove vive ora la figlia del vecchio Dondi? - Augusta non lo sapeva. Non era mai ritornata a Trieste dopo di essersi sposata con uno straniero.
      Ed io perciò rividi la povera Dondi, nelle sue gonne tuttavia lunghe, moversi in qualche cantuccio della terra, sconosciuta, cioè fra gente che mai l'aveva vista giovine. Me ne commossi perché era il mio stesso destino benché io mai mi fossi allontanato da qui.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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