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      - Non occorre, pranzerò alla locanda.
      - Che diavolo! - esclamò il colonnello. - Perché alla locanda? Non ne vedo la necessità.
      E diede ordine che si apparecchiasse alle tre per me solo.
      Avevo fatto quella domanda per riabbracciar Clara, anzi tutto; poi per aver tempo a riflettere sopra una risoluzione piú fruttuosa, e fors'anche a consigliarmi con lei. Se avessi veduto modo di abbandonare quella casa, tutto sarebbe stato finito; ma la mia mente non giungeva a trovare per ciò un pretesto ragionevole.
      Al domani, come aveva preveduto, trovai Fosca che mi aspettava nella sala da pranzo. Essa vi s'era fatta portare un suo piccolo tavolino d'ebano, e vi stava lavorando di ricamo.
      Quella sua costanza, quel difetto di amor proprio che mi pareva scorgere nel suo carattere, quell'ostinazione a volermi imporre il suo affetto, fecero sí che io la vedessi sotto un aspetto ancora piú triste di quanto non me la avesse già fatta vedere la sua bruttezza. Ne fui offeso e disgustato. Se non era che in quell'istante il pensiero della mia felicità mi rendeva lieto e indulgente, sarei stato veramente cattivo con lei. Ma si può essere cattivi quando si ama? Se tutti gli uomini amassero, se l'esistenza fosse una giovinezza perenne, la questione del bene e del male sarebbe risolta, il trionfo della virtú sarebbe assicurato: noi non spiccheremmo piú dall'albero della vita che i dolci frutti del bene.
      Mi contenni nondimeno con molta freddezza. Fosca non parlò mai; io divorava in silenzio. Di quando in quando alzavo gli occhi e la guardavo.


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Fosca
di Igino Ugo Tarchetti
pagine 213

   





Clara Fosca