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      Rientrai nella città. Mi pareva d'essermi dimenticato di qualche cosa, aveva nella testa l'idea confusa di un piacere vicino, di una gioia certa, ma non sapeva quale fosse. Ad un tratto me ne sovvenni; fu un baleno: non aveva letto ancora la lettera di Clara.
      Sorrisi tra me stesso, e mi affrettai verso casa. Quella lettera mi avrebbe compensato di tutto. E poi, la mia felicità era adesso ben certa, fra poche ore sarei partito per Milano, sarei vissuto sempre vicino a lei, non l'avrei abbandonata mai piú. Ora ne era ben sicuro. Come poteva io dolermi di una sventura sí lieve, d'innanzi alle attrattive di una gioia sí grande e sí durevole? Io sorrideva di quel dolore miserabile.
      Non so se gli altri amanti sieno stati nei loro affetti tanto sublimamente puerili quanto lo fui io. Vorrei pur leggere nel cuore degli altri uomini per conoscere se io ho realmente amato di piú, se fui in ciò, come ho creduto e temuto sempre, un'eccezione mostruosa e sventurata.
      Non lessi mai una lettera di Clara se non alcune ore dopo averla ricevuta, per prolungarmi coll'aspettazione il piacere di quella lettura. Spesso, appena apertele, incominciava a leggere a rovescio, o alla trasparenza della fiamma della candela, e guardava qua e colà in fretta alcune parole, e richiudeva tosto quei fogli per costruire con esse qualche frase a mio talento, e fantasticare su ciò che avrebbe potuto dirmi. Non comprendeva nulla, se non dopo averle lette dieci o venti volte; le ritenevo a memoria, e le recitavo a me stesso prima di addormentarmi; talora le ricopiavo imitando i suoi caratteri, per provare in qualche modo le sensazioni che ella doveva aver provato nello scriverle.


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Fosca
di Igino Ugo Tarchetti
pagine 213

   





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