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      E invero chi avesse veduto in quel torno la città di Milano avrebbe chiesto dov'era la splendidezza delle case, la chiassosa allegria dei cittadini, l'eccellenza delle arti, la frequenza di una plebe numerosa e felice. Fin dal principiare di giugno erasi appiccato di nuovo il contagio in Lombardia più fiero e più crudele che nel passato; tanto che quasi due terzi degli abitanti n'erano periti. Al qual numero se si aggiungano i morti nella peste dell'anno antecedente, di leggeri si farà ragione dello squallore e della miseria di questa città. I provvedimenti dati dal duca Bernabò Visconti, anzichè scemare, accrebbero di gran lunga la desolazione di Milano, perocchè nell'anno avanti, appena si ebbe indizio di contagio, fuggissi tostamente nelle sue castella presso Marignano, e nella città comandò che fossero diroccate le case di tutti coloro che eran morti di contagio, senza riguardo per gli ammalati o pei sani che vi potevano essere. Poscia, quando la peste si riprodusse più forte, diè ordine che tutti quelli i quali fossero tocchi dal male, dovessero portarsi fuori della città o del paese ove abitavano, e andassero nei boschi, nelle campagne a morirvi; nè alcuno, che avesse assistito un contagioso potesse ritornare a casa prima di dieci dì dalla morte di esso. I preti e i parrochi di ciascun luogo erano obbligati di visitare gl'infermi e di additare agl'Inquisitori, trascelti a tal uopo, ogni ammalato sotto pena del fuoco: del pari i beni di ciascuno erano dati al fisco fino a nuovo avviso.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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