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      Ma tant'è, il capogiro le è venuto, e se n'è anche andato, la Dio mercè.
      - Ma, sai, mia buona Cecilia, che mi hai fatto una paura da non dirsi. Quel gocciolone di Martino, al quale stava per rivedere il pelo, mi parlò così ingarbugliato, che quasi temeva d'un malanno più serio. Ben è vero che il contagio è sparito, ma in fin dei conti, dove c'è stato una volta può tornarci la seconda e la terza, e... Ma via, adesso son tranquillo.
      - Vedi, marito mio, prese a dire Cecilia, hai voluto andare a quel brutto spettacolo.
      - Hai ragione, non doveva uscire: quei poveri appiccati mi stanno sempre davanti agli occhi, e mi fanno una pietà... Ah! se avesti veduto i due Borsano, quei che avevano bottega di pelliccie vicino alla tua, con che tenerezza si abbracciavano. Ah! se tenessi qui nelle mie unghie il Duca, o qualcheduno dei suoi, per Dio vorrei conciarlo a mio modo, e non andrebbe a Marignano a pentirsene.
      In quel mentre il cane che aveva a custodia dal Duca, erasi levato dal suo giaciglio e cacciavasi tra le gambe dell'armajuolo. Ma per sua mala ventura, perchè Stefano in quell'impeto di rabbia gli diede un tal calcio a mezzo il corpo che lo portò all'altra estremità della camera, dove percosse nella parete e stramazzò.
      - Sta lì, cane, gridò poscia, vera imagine di quel tristo che s'ingrassa a spese di noi poveri cittadini, e ci lascia morire del contagio e di miseria. Così potessi fare di lui quel che ora farò di te.
      - Oimè, Stefano, sclamò la moglie impaurita, vuoi tu vederci morti? Non sai che la perdita di quel cane costerebbe la vita a tutti noi?


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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