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      Però non potè far in guisa che il suo brontolio, o meglio quella specie di sibilo solito a uscire dalla bocca delle pinzochere, non risvegliasse il marito, il quale balzò fuori del letto e sguardato attorno, chiese:
      - Che c'è? Che vuol dire quel cero acceso, e quel volto contristato, o Cecilia? forsechè ti è apparsa in soguo la buon anima di tuo padre che ha bisogno di un po' di bene?
      - Eh! no, caro Stefano, mio padre era troppo uomo dabbene, e Iddio l'avrà già ricevuto nella sua santa gloria.
      - Perchè preghi adunque?
      - Prego Dio, che voglia distornare da noi il pericolo che ci sta sopra; prego la mia protettrice che interceda la grazia di risanare quel cane che vuol essere la nostra rovina.
      - Ah! disse l'armajuolo, non basta che questi cani ci tolgano di bocca il pane da mangiare, anche le intercessioni dei santi ci rubano. Oh! padre Teodoro, se vedessi quale strapazzo siamo costretti a fare della grazia divina, cercandola per un cane, che cosa diresti tu, vero frate del Signore? Ma, che serve? Poichè siam dentro nel pantano fino al collo, bisogna starci, e non dimenarci anche per non isprofondare. Come sta ora quel cane?
      - Che so io? E là ancora disteso che non si muove: per me tengo che si sia addormentalo.
      - Così pur fosse, che il sonno è indizio di guarigione. Ma temo assai. Basta, vediamo.
      Ciò detto, avvicinossi al giaciglio, sul quale era stato posto il cane, e la Cecilia, asciugatasi una lagrima col rovescio della mano, gli tenne dietro col cero, perchè l'alba non era ancor tanto sorta da poterci vedere senza il lume di Marfisa.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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