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      Ora egli era prostrato, avvilito, deforme quasi; e tutto ciò per la miseria d'un calcio, che alla fin fine era poi sempre un calcio. E il buon armajuolo la pensava anch'egli così, perocchè nel visitarlo, andava borbottando:
      - Che tu sia maladetto: a vederli questi cani pajon forti come orsi, e alla prova son più deboli delle lepri che perseguitano. Ecco lì, appena sollevi un piede contro di loro, ti cadono sbalorditi per terra come ragni colti dalla scopa. Già, quando si tratta di far dispetto, son tutti così. Se li hai bisogno docili e mansueti, ti saltano agli occhi e ti succhiano la minestra fuori del cucchiajo; se li desideri forti ed arditi, almen tanto da resistere all'urto d'un piede, ecco che a tua marcia rabbia diventano peggio che di stracci. Ma, pazienza; or non è tempo di ciarle, bisogna ajutarsi in qualche modo. Ehi! Tonio, Martino, non siete ancora alzati? Aspettate forse che il sole vi dia sul ventre?
      - Mio Dio, sì, rispose una voce dal pian terreno, se il sole potesse entrarvi dentro e tener luogo di pane e di minestra, farei patto di stare tre giorni e tre notti colla pancia all'aria. Cioè, le notti no, messer Stefano, perchè le notti....
      - Son fatte per i pipistrelli tuoi pari. Su via, sali, gaglioffo, che ho bisogno di te.
      - In due minuti son lesto, rispose la medesima voce. E da lì a poco udissi un rumor di passi sulla scaletta, e la faccia di Tonio non ancora del tutto svegliato presentossi all'uscio.
      - Che cosa volete da me, messer Stefano? chiese egli trattenendosi sull'ingresso.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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