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      E questo consumo, che in origine era a danno de' cittadini facoltosi, a cui Barnabò, or con un vezzo or coll'altro, non ristava dallo smungere danaro, tornava poi a beneficio dei bottegaj e dei rivenduglioli d'ogni specie, i quali erano fatti sicuri di vendere la roba loro a discreto patto ed anche con una tal quale larghezza. Dal che venne quel proverbio, ancora adoperato a' dì nostri dai mercajuoli, i quali ad un'offerta poco convenevole rispondono: alla ca di can, so dove e da chi pigliar tanto. E ciò appunto avranno detto i venditori di quei tempi a quelli che invilivano la roba loro, perocchè eran certi di avere il tal prezzo alla Casa dei Cani.
      Nè soltanto in Milano mantenevasi cotanta turba di cani, ma eziandio nelle altre città che stavano sotto il dominio di Barnabò. In Parma specialmente ei fece pubblicare un editto da certo frate Giovanni dell'ordine de' Gaudenti, il quale era officiale de' suoi cani, e con esso ordinò che tutti i cittadini, i quali avevano l'estimo di cinquecento lire dovessero ricevere uno de' suoi cani in custodia sotto pena di dieci fiorini d'oro e di un fiorino d'oro al mese. E quelli che vi si rifiutarono furono condannati chi nei beni e chi nel capo. Neppure gli ecclesiastici andarono esenti da queste avanie; anzi sembra da quel che narra il nostro cronista e da quello che si raccoglie da tutti gli storici, che sopra di essi accumulasse tutte le oppressioni. Oltre alla taglia di soldi trenta per ogni lira d'estimo che dovevano sborsare, mercè la quale, non trovando modo a pagare, moltissimi erano posti in carcere, essi erano più di ogni altro esposti ai crudeli capricci del Duca che toglieva loro le prebende, li dimetteva dal loro ministerio, li torturava, li cacciava in bando, e li metteva spesso a morte.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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