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      Il Duca pertanto era capitato in Milano una notte, quatto quatto, che nessuno quasi se ne accorse, tranne quelli che vegliavano ancora: i quali vedendo un insolito chiarore e udendo un calpestìo misurato ma silenzioso, che non era nè d'uomini nè di cavalli, s'addiedero della cosa. Il calpestio veniva infatti dalle zampe dei cani, i quali addestrati com'erano, seguivano il Duca nelle sue gite, e procedevano ordinati a due a due senza bisogno di guinzaglio e neppur quasi di voce per tenerli a dovere; il chiarore poi era quello delle faci portate dai servi e dai canattieri, dei quali trovavasi uno ogni trenta cani. La mattina appresso erasi tosto sparsa la nuova della sua venuta, e i cittadini anzichè rallegrarsi, ne rimasero profondamente addolorati. Tanto più che facevansi già le inquisizioni di coloro che avevano ucciso o mangiato selvaggina, giusta la legge del Duca; e la presenza di lui non poteva che accelerare il fatto, e togliere anche l'ultimo filo di speranza. Quella legge poi, dice il nostro canattiere, si tiene che fosse stata dettata dal Duca in un momento di dispetto, allorchè rinchiuso nel suo forte di Marignano, e fallitogli da più giorni il diletto della caccia, n'ebbe tanto dispiacere, che volle in certa guisa rovesciarlo sul capo di quelli ch'egli stimava più fortunati di lui, avendo ucciso lepri o cinghiali. Checchè ne sia, i cittadini viveano in grande spavento, ed ora che avvicinavasi il dì fissato per la mostra dei cani, raccomandavansi caldamente al Signore, perchè la mandasse buona a tutti.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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