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      Ad un tratto la vista gli si appannò, e parvegli che le case gli ballassero davanti, le gambe tremarongli sotto, e nelle orecchie udì un ronzio, come d'un mulino che girasse. Ei fece uno sforzo per ripigliare i sensi e per tenersi sulla persona, ma dopo aver traballato alquanto, le forze l'abbandonarono del tutto e svenne. Il poveretto non aveva assaggiato cibo nel giorno addietro, e la debolezza dello stomaco aggiunta all'angoscia che provava, gli fece quel brutto giuoco. Se non che la sua buona ventura, se tale può chiamarsi, volle che in quel punto ei si trovasse vicino al muro, talchè non cadde sul terreno, ma rimase un cotal po' inclinato e colle spalle appoggiate alla parete. Quanto tempo ei rimanesse in quello stato, non seppe nemmeno l'armajuolo: la via era deserta, e non udivasi neppur da lungi rumore d'anima nata. Quand'egli ritornò in sè, era lo stesso silenzio e la stessa solitudine: perocchè in que' dintorni la peste aveva menato un guasto terribile, e le case erano state pressochè tutte diroccate o abbandonate. L'armajuolo aprì gli occhi, non ancora ben rinvenuto, e fece l'atto di alzarli al cielo; ma qualche cosa che stavagli rimpetto attrasse tutta la potenza delle sue facoltà, che parvero concentrarsi negli occhi. Una finestretta aperta, che dava sopra una loggia per metà caduta, lasciava vedere una figura di donna, che pareva tendergli le mani e sorridere. Dapprima non ne ravvisò interamente la fisonomia:, poi a lungo osservare gli parve quasi di riconoscerla, ma sfinito com'era, non poteva ajutarsi bene colla memoria.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168