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      - Bella Cecilia, diceva intanto lo Scannapecore alla moglie dell'armajuolo, voi siete ancora in tempo di riparare a una grande sventura. Forsechè il timore non v'ha resa più umana ed arrendevole? Ricuserete tuttavia di prestar orecchio alle sincere mie proteste?
      Per tutta risposta la Cecilia alzò gli occhi al cielo e sospirò. Lo Scannapecore scorgendo di non poterne cavare alcun costrutto, disse tra i denti:
      - Ah! ah! carina mia, tu fai il bell'umore, e vuoi stare imbronciata con me. Ma ti leverò io la stizza dal capo. Ne ho guarite delle altre, sai? ed erano fior di roba e superbe come lucifero. Una notte che tu abiti fra quattro mura basterà a farti mutar parere.
      - Ahi! meschino me! sclamava Tonio battendo i denti della paura, ma votete proprio metterci prigione? Che cosa vi abbiamo fatto noi? Che colpa abbiamo se il cane fu portato via dal diavolo? A queste cose non si può star innanzi.
      - Mio bel garzone, dicevagli lo Scannapecore, tutte queste ragioni le potrai dire al Duca: intanto sta zitto, se no, saremo obbligati a porti la museruola.
      E Tonio ricacciavasi in gola un lamento e tirava innanzi singhiozzando; ma siccome era di natura ciarlone, così nè timore, nè percosse valevano a farlo tacere un pezzo. Laonde non aveva fatto dieci passi che ripigliava brontolando tra sè e sè, quasi seguitasse il filo delle proprie idee.
      - Povero il mio letticciuolo! E a dire ch'io mi lagnava sempre, e lo faceva troppo duro e disagiato, e gli dava cagione di tutti i malanni che provava. Ora chi sa su che razza di giaciglio sarò costretto a distendermi!


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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