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      Quand'ecco sente alcun che di pesante sdrucciolargli fra le gambe, poi una specie di tanaglia afferrargli un piede, infine una spinta di sotto la persona così violenta e impensata, che il canattiere non ebbe tempo di profferire una parola, ma stramazzò quant'era lungo sul pavimento. La sua mala ventura volle che il capo andasse a percuotere contro lo zoccolo d'un armadio e ne provasse tale intronatura da fargli andare la vista in visibilio. In quello stordimento gli parve anche di sentirsi stringere alla gola e di provare sulla pelle il freddo di una lama; ma fosse illusione o realtà egli non ebbe la più piccola scalfittura e tranne un po' di contusione alle costole, ne uscì senza un pelo torto. Il demonio, o folletto, o spettro che fosse, perchè il canattiere non volle persuadersi che un semplice uomo gli avesse fatto sì mal giuoco, si era ritirato appena ei fu boccone, e lo stesso Graffiapelle diceva di averlo veduto scomparire dalla finestra e sfumare a guisa di ombra.
      Intanto che il mal capitato canattiere ingegnavasi alla meglio di rimettersi sulle gambe, e si toccava la persona per assicurarsi d'aver tutti i membri al lor posto, Stefano e Martino avviavansi a tutta lena alla volta del convento nel quale avevano deliberato di passare la notte. Il fanciullo portato sulle braccia dell'armajuolo piangente e balordo per quella specie di prigionia sofferta, avvinghiavasi con tutta la forza delle sue mani al collo di Stefano, e ad ogni istante lo chiamava per nome quasi dubitasse di trovarsi così da vicino al padre suo.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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