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      - Questa è la cella del padre Teodoro, e qui potete star sicuri che nessuno baderà a voi. Ora vi lascio, perchè la compieta sarà quasi terminata, ed io devo trovarmi cogli altri per l'ora della cena. Finito che avremo di mangiare, verremo tosto a tenervi compagnia. Intanto addio, che il Signore sia con voi.
      - Amen, disse Martino, e che ci mandi tosto la sua benedizione.
      - Ho capito, Martino, rispose padre Andrea, prima di cenare dirò una parola all'orecchio di frate Pasquale, ed egli vi porterà questa benedizione. Addio, addio, la compieta è finita; lasciano già il coro.
      Infatti nel chiudere che fece l'uscio della cella, udissi un fruscio confuso e un bisbigliare sommesso, che perdevasi nel cortile e sotto il porticato, finchè non furano tutti raccolti nel refettorio. Allora il convento si fece di nuovo silenzioso. Da lì a breve l'uscio della cella fu aperto, e un frate entrò recando un piatto di lenti con due pani ed un fiasco ch'ei depose sulla tavola senza far motto. Alla qual vista Martino balzò in piedi ed aspirato alquanto l'odor delle lenti, sclamò:
      - Gran mercè, mio buon padre; Deus in adjutorium meum intende.
      Il frate che aveva mosso il piede per uscire, borbottò fra i denti come per istinto: Domine ad adjuvandum me festina, e chiuse l'uscio. E noi lasceremo che l'armajuolo e il garzone gavazzino intorno a quel piatto, famoso nelle sante scritture, siccome lasceremo che i frati satollino nel refettorio le convesse lor pance, per ispendere quattro parole intorno al padre Teodoro, il quale, sebben per poco, rappresenta una parte importante nel nostro racconto.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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