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      e a nozze con Leopoldo duca d'Austria, ne provò così forte angoscia che infermò gravemente. Riavutosi, e veduto di aver posto invano il suo affetto, prima nella patria, poi in una donna, si volse interamente a Dio, e in lui collocò ogni suo sentimento. Pertanto scioltosi da ogni terreno vincolo, vestì l'abito degli Umiliati, e, lasciato il i nome di Uberto per pigliar quello di padre Teodoro, si consacrò tutto al servigio della Chiesa ed alle opere di pietà, nelle quali si segnalò in guisa da cattivarsi la riverenza e le benedizioni del popolo. Durante il contagio egli aveva raccolto e soccorso infermi, aveva amministrato sacramenti, nutrito bambini ed orfani, e tanto s'era adoperato a pro degl'infelici, che per lui la peste aveva fatto minor guasto. Dappertutto ov'era miseria da sollevare si era sicuri di trovar lui, o il padre Andrea, il quale sebbene non infiammato dallo stesso zelo, tuttavia col continuo esempio aveva gettata l'antica infingardaggine ed era riuscito una buona pasta di frate.
      Tale si era quel padre Teodoro, che noi abbiamo veduto comparire un istante, nel primo capitolo, e col quale ora ripigliamo conoscenza, stantechè terminata la cena, ei s'è levato dal refettorio ed è entrato nella sua cella. Chi dei lettori nol trovasse poi una conoscenza affatto nuova, e non volesse assolutamente chiamarlo padre Teodoro, lo chiami pure fra Cristoforo, fra Buonvicino, o chi altri, che poco c'importa. Già i frati son tutti frati, e dal nome in fuori non conosciamo che siavi differenza tra l'uno e l'altro: sfidiamo i romanzieri a provarcelo.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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