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      - E di che cosa temete adunque? domandò Martino.
      - Di che? del Duca, ossia dello Scannapecore. Credi tu che a quest'ora non sapranno ch'io sono rifuggito qui? E se nol sanno, che possano tardar molto a venirne in chiaro?
      - Oh! non ardiranno venir a levarci di qui: sarebbe troppo grande insulto alla chiesa di Dio.
      - Tu dici questo per ridere, eh, Martino? soggiunse tosto l'armajuolo. Che sì che il Duca avrà molto rispetto alla chiesa ed a chi vi abita. Ne hai sotto gli occhi l'esempio. Pensi tu, che se ha fatto abbruciare quei due santi uomini per una cosa da nulla, si rimarrebbe dal mandar sossopra tutto il convento e dal far arrostire tutti i frati, dall'abate al portinajo, quando volesse cavarsi una voglia, un capriccio, come questo?
      - Ebbene, disse Martino alzandosi da sedere, eccomi qui, partiamo; io sono sempre con voi.
      - Adagio, adagio, mio caro. Se non dobbiamo rimanere per non mettere in pericolo i nostri ospiti insieme con noi, non dobbiamo poi anche darci così alla cieca nelle mani del Duca. E l'uscire adesso sarebbe come dire, pigliateci. Bisogna lasciar passare il primo rumore. Questa notte dormiremo ancora qui, e domattina prima che faccia giorno usciremo di Porta Giovia, e sia di noi quel che è destinato.
      - Udite, messer Stefano, prese a dire Martino. Voi già sapete che io vi sarò compagno sia nell'andare, sia nello stare, e di questo non ne parliamo. Solo voleva dirvi, che mi sa male di partire proprio così alla disperata, senza cercar di ajutarsi a restare.
      - E che modo vorresti tu adoperare? disse l'armaiuolo sorridendo amaramente.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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