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      - Eh! messer Stefano, rispose il garzone, io non mi do ancora del tutto per vinto. La scomparsa del cane, e soprattutto quella della vecchia Marta, non l'ho ancora potuta ingojare. Se non li ha portati vìa il diavolo entrambi, in Milano ci devono essere; e poi, la vecchia Marta, con quel brutto nome di strega, deve aver di grazia a tornar a casa, se non vuol dormire la notte al sereno. Lasciate che stassera faccia una corsa fino al Carobbio, e vi saprò dire qualche cosa. Quell'andarsene così ad occhi chiusi non mi va a sangue, e chi sa che le faccende non si voltino. Se ne sono raccomodate di peggiori.
      - Basta, disse l'armajuolo scrollando il capo con tuono di incredulità, per me fa quel che vuoi. Bada però a non capitar male.
      - Eh! mio Dio, lasciate fare a me, che so come si vada attorno di notte senza inciampare. Così avessi in tasca tante lire, quante volte battei le strade di sera, quando c'era il taglio del piede a chi era colto. E i miei piedi, vedete, sono sani e lesti, e mi giovano a maraviglia.
      Infatti Martino non aspettò neppure che la sera fosse innoltrata, e colla permissione di frate Pasquale, il quale era stato assunto all'ufficio di guardiano per la morte di padre Andrea, uscì di soppiatto dal convento, e non ritornò che dopo una buona mezz'ora. L'armajuolo, quantunque avesse mostrato poca fiducia nel tentativo del garzone, lo stava però aspettando con molta ansietà, perchè la speranza è come la pece, che dove s'attacca, lascia il segno. E Stefano sperava, senza sapere nè come, nè di che, ma pure sperava, e per quel momento sentivasi quasi sollevato dall'angoscia che l'opprimeva.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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