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      La notte era già innoltrata d'alquanto, e l'oscurità così fitta che non vedevasi a un palmo dal naso. Allorchè i nostri profughi arrivarono davanti a quella tal porticina, l'armajuolo, nel rivedere quel luogo, sentissi rimescolare il sangue dentro le vene, e pensò allo strazio sofferto tre giorni addietro; pure si fece forza ed entrò. Se non che, nello sboccare che fecero nel cortile, Stefano si sentì afferrare per un braccio, e udì la voce di Martino che dicevagli sommesso all'orecchio:
      - Su, pigliate voi il fanciullo, messer Stefano, che salirò io dalla vecchia. Non è cosa prudente il metterci entrambi nella trappola, se mai ve ne fosse. Voi state sulla via ad aspettarmi.
      - No, Martino, rispose l'armajuolo. Se mai havvi pericolo, non voglio che tu ti esponga un'altra volta per me. Via, taci, ora voglio così. A dirti il vero, muojo anche dalla voglia di dir due parole a quella vecchia del diavolo.
      - Sia come volete. Io mi tratterrò fuori della porta. In ogni caso non avete che a chiamare.
      - Lascia fare a me; ho qui con che farmi chiaro; e toccava il pugnale.
      Questa prudenza di Martino eragli stata suggerita dalla vista di un'ombra che i suoi occhi di lince avevano scorto nel cortile, la quale poteva benissimo esser prodotta da una illusione della sua fantasia, ma ad ogni modo gli aveva dato a pensare. Ei non ne fe' motto all'armajuolo per non mettere la porta a rumore e mandar fallito il suo disegno; ma stimò opportuno adoperare quella cautela e porsi in guardia contro ogni evento.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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