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      Ma Stefano, il quale vide che del pugnale non poteva più giovarsi, e che gli era un perder tempo, non gli lasciò agio a sciogliersi dalla prima stretta che gli diede, anzi, abbandonato d'un tratto il pugnale, gli si avvinghiò sì forte alla persona, che al canattiere venne meno il respiro. Pure trovò ancora tanto fiato da gridare una seconda volta, e fece anche uno sforzo violento per divincolarsi; ma i compagni dello Scannapecore o erano sordi, oppure fuggiti. Fin dal primo assalirsi dei due, uno strano chiarore era apparso dall'uscio tuttora aperto, e dapprima fioco e lento, erasi di poi vieppiù rinvigorito, e aveva preso un color fosco e sanguigno. Sì il canattiere che l'armajuolo erano rimasti maravigliati di quell'improvvisa apparizione, e temettero di qualche grave sciagura, e più il canattiere, il quale aveva la coscienza non troppo linda: ma, poichè trovavansi entrambi in un pericolo più forte e più vicino, non badarono più che tanto a quella luce. Chi vi badò e ne fu oltremodo spaventato, erano stati i cagnotti dello Scannapecore da lui collocati in agguato nel cortile, i quali al primo mostrarsi di quel chiarore si guardarono in viso pallidi e istupiditi, poi la diedero a tutte gambe senza trovar coraggio di voltarsi indietro. E n'avevano ben donde, imperocchè quella luce veniva da una apparizione celeste, la più strana e la più terribile che si potesse vedere. Era un teschio umano, ardente dentro un cerchio di fuoco, così vicino a terra, che pareva dovesse incendiare le case, e specialmente il palazzo del Duca, sopra il quale posava.


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La cà dei cani. Cronaca milanese del secolo 14.
cavata da un manoscritto di un canattiere di Barnabo Visconti
di Carlo Tenca
Editore Borroni e Scotti Milano
1854 pagine 168

   





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