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      E così gli anni suoi giovanili, non che gli anni maturi, gli furono sgombri da quelle nuvole di passione che, gaiamente colorate qua e là, nondimeno tolgono della piena distesa serenità della mente. Egli prese per tempo non solamente ad amare il verso di Dante, ma a penetrare nelle dottrine di lui, delle quali tanti suoi lodatori d’allora vissero e morirono digiuni, declamando intorno a quel poema e inzeppandone i modi in rima e in prosa senza intenderne il vero significato. Lo intendeva il Rosmini giovinetto, perchè già erudito nel linguaggio delle antiche scuole e de’ Padri; e non solo i filosofi e religiosi concetti ne comprendeva, ma i civili altresì; e scrisse allora ragionamenti ne’ quali comentare il poema col libro della Monarchia e con gli altri di Dante; cosa per quel tempo nuova. Ammirava egli il verso di Dante; e a me, assorto ne’ grandi Latini, ne raccomandava lo studio, non già con aridi o superbi o importuni consigli, da’ quali e nelle lettere e nella vita per modestia e per senno s’asteneva; ma leggendomene qualche tratto con voce che gli usciva dal petto profondo, quella voce contemperata di forza e di soavità, la quale egli conservò, come l’anima giovane e vergine, per infino a’ giorni dell’estrema agonia. E quand’egli, già rifinito di vita e già col pensiero al di là della terra stendendo al mio collo le braccia, e interrogandomi della salute mia più sollecito di me che di se stesso, profferiva parole d’affetto semplici e non dimenticabili mai; nella voce del morente io sentivo la voce che trentasette anni fa mi diceva:


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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