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      Ancora in mente il serbo: io ti promisiO dell’anima mia diletto e speme
      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
      E ’l tempo è già. La Padovana stateChe quasi piombo mi premeva, ormai
      Cangiata ho co’ più miti ilari giorniRoveretani, e colla sciolta villa
      La città che di cure avvinchia. Il coreQui si rallarga, e me medesimo chiamo
      Più volte al dì beato, o sia che l’oreDel mattin rugiadoso insiem col rozzo
      Agricoltore e col vivace augello,
      Desto dal sonno lievemente, io fuoriMe n’esca al campo, e libero vagando
      Pel largo verde, senza norma a questoO a quell’oggetto di natura io volga,
      A cui pensosa Maraviglia e puroPiacer mi chiami: o già commosso e pieno
      D’un sacro ardor, che in me la sparsa in tuttaL’ampia natura, Sapienza, infuse,
      Soletto io torni, infervorando il Sole,
      Pel più fresco sentiero . . . . . . . .
      O sia che io sieda a dolce mensa, lietaNon di pruriginosi estranei cibi,
      Ma di congiunti che d’un cor son tuttiE di rari non compri amici illustri,
      Onde al colloquio famigliar si mescanoGravi parlari e saggi detti, e parco
      Tutto condisca amabilmente il sale:
      O finalmente allor ch’il Sole obliquoLa costa oriental sol mezza inaura,
      Spente del piano ormai le accese tinte,
      Anche allora il cor mio fine non trovaDi beato chiamarmi. Ecco mi cinge
      Drappel di fidi amici, e insiem m’adduconoPer erma parte al vespertin passeggio.
      Si ragiona e contende in sulle letteFra ’l dì varie dottrine.
      . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
      Che non il vago della conscia lunaLucente globo al sommo giunto in Cielo


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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