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      Nella bellezza egli riconosceva moralità, perchè l’abito mondo e grazioso è riguardo che l’uomo deve a sè stesso e ad altrui, perchè doti morali sono la delicatezza e il decoro.
      Ma venendo a quell’altro pernio della sua vita, la scienza, egli nega che la lingua italiana sia insufficiente a significare tutte le idee umane che siano idee e non aborti; al contrario di coloro che, non la sapendo nè volendo apprenderla, fanno teoria della propria ignoranza; e li chiama idioti, e la scienza loro indiscreta e incivile; e detesta quella affettazione di novità barbara, quella esotica rusticità. De’ lineamenti incerti del dire egli accagiona il sentimento incerto e confuso e dice insoffribile deformità che nella stessa nazione le dottrine non abbiano favella costante, ma usino mille gerghi e mille cifere diverse a capriccio degl’impoliti scrittori. Egli vuole la scienza curante delle sottili proprietà; vuole in essa quel linguaggio fermo che seppe poi ritrovare; e afferma che la solidità e la proprietà della lingua si mettono a prova nelle cose dell’erudizione e dell’intelletto, dove le idee rapiscono con sè le parole; ch’è modo più potente dell’Oraziano, che le parole non restie tengon dietro alle cose premeditate. Non già ch’egli non senta come i concetti della mente sovente trapassino i termini del creato e abbiano dell’ineffabile; non già che non sappia come il passar sopra a certe minute timide cure sia istinto e testimonio di grandezza; ma di qui non deduce scuse all’inerzia superba di quella scienza ch’è tanto più volgare quanto dal popolo si fa più remota.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





Oraziano