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      E già mille cose in breve tratto si fanno appurare e trangugiare dalle menti tenerelle, che per mia fè colui il quale per addietro sarebbe stato da latte, ora si vuol simile a quel valoroso, che avria sorbito, come canta il piacevolissimo nostro poeta,
      Che avria sorbito in un boccone interoL’uomo e il cavallo, l’arme e i vestimenti
      Senza toccar nè il palato nè i denti.
      Toccando della storia della lingua (giacchè ben vedeva quest’alto ingegno che in ogni cosa è storia e nella storia ogni cosa) s’avvede dello sbaglio di coloro che fanno gl’Italiani peggio che pappagalli de’ Provenzali nel dire con parole altrui quel che sentivano essi con la mente e l’anima propria, e scorge tra le due lingue consanguineità di sorelle, e maggiore affinità riconosce tra loro ne’ primi tempi, che l’italiana non era ancor cresciuta in corpo adulto e consolidato; e soggiunge cosa che non troverai la simile in tutto il Perticari, che pur fa dell’uomo civile, soggiunge che lo stato civile d’allora era in Italia più semplice e meno artificiato; le quali modeste e socratiche parole dell’Abatino a buon intenditore dicono più di tutti i ragionari che ordisce intorno a Dante e al Boccaccio Didimo Chierico sacerdote delle Muse. Vuole che negli antichi volgarizzatori s’apprezzi la disinvoltura tutta italiana, conciliata alla puntualità che in liberi modi rende fedelmente il più sovente l’intimo del concetto; vuole che dal raffronto di quell’italiano al latino conoscasi dove l’una delle due lingue scarseggi, dove abondi; e così lo studio delle parole facciasi studio d’idee, e la ricchezza passata sia germe allo svolgersi di ricchezza avvenire, e ravvivisi la bellezza primiera là dove comincia scolorire.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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