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      Non riponeva la novità nello strano, che pareva a lui facil cosa; ma difficile sentiva il semplice, l’eletto: e additandoci un giorno un volumetto contenente versi scelti di poeti parecchi, si compiaceva di molta gloria e bellezza in sì poca mole.
     
     
     
      VII.
     
      Non è però che la splendida copia di Cicerone non gli apparisse sempre ammirabile cosa; e come autorità filosofica lo citava volontieri, come documento cioè delle tradizioni buone di secolo in secolo al genere umano comunicate. La quale riverenza agl’ingegni de’ Pagani egli aveva redata, come successore degno, da grandi autori Cristiani, che pure tanto ci aggiunsero, e che per zelo della purissima verità parevano dover rigettare tutto quel che cristiano non fosse. Ma tra Platone e Aristotele, la sua predilezione era al primo de’ due, che leggeva giovanissimo nelle traduzioni di Dardi Bembo e del dotto Ficino; a Platone e perchè pensatore insieme ed artista, e perchè docile conservatore e interprete eloquente di tradizioni più alte, e perchè più galantuomo com’io, parlando seco, osavo chiamarlo. E mi proponeva anni fa di tradurlo, ed egli ci farebbe sue note; tutto quanto tradurre, senza lasciar fuori veruno anello dell’aurea catena. Ma la diversità degli studi miei sparsi, e la dispersione della mia vita, e la difficoltà dell’impresa che mi pareva richiedere tutta intera una vita, fanno pesare su me, se non il rimorso, il dolore di avergli tolta l’occasione d’un sapiente e all’Italia glorioso lavoro. E allorchè lo rividi dopo tanti anni, glielo rammentai con desiderio di rammarico, ed egli con modestia schietta e da far rabbrividire le nostre facili vanità mi soggiunse che per quel po’ di studio che gli pareva aver fatto sopra Platone, credeva sarebbesi potuta mettere in chiaro la stretta colleganza de’ concetti apparentemente sparpagliati pe’ Dialoghi, e mostrarne l’intima vita, dal bello delle imagini luminose significata insieme e velata.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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