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      Più che dell’ingegno, prendeva egli cura paterna, ma senza affettazione nessuna, dell’animo mio, e fin della salute gracile; e, tornato ch’io fui nel medesimo albergo, faceva forza per cedermi la sua stanza più sana e più allegra, e esso salire in una mesta e angusta: ma io con gratitudine ricusai. E quando terminati gli studi e rifuggendo dal mestiere d’avvocato, col cuore già tutto all’Italia e alle lettere, io abbandonai gli agi della casa paterna, e per cansare fin l’ombra di querela, non che di raffaccio, dal padre dolente, rifiutai ogni aiuto proffertomi e riproffertomi, e anche mandato; non mi pesò d’accettare a cuore aperto e a fronte alta per undici mesi ricca l’ospitalità del Rosmini: dalla quale poi mi staccai non per tedio o per insofferenza dell’obbligazione, ma perchè sentivo il debito che ciaschedun uomo provvegga potendo a sè stesso, e s’educhi alla povertà come ad arte bella e a regina delle arti, e si armi alla vita. Ben posso affermare che in tutto quel tempo il degno uomo non solo adoprò il proprio affetto ai servigi di scusabile, anzi santo zelo; ma lasciò piena al mio ingegno e a’ portamenti la libertà, come s’io il padrone della casa, egli l’ospite, io il più maturo di senno, egli il men virtuoso. E anche quando i miei studi si smarrivano in inutilità, quando l’animo mio trascorreva in isdegni soverchio giovanili; egli tanto veggente, tanto ardente del bene, tanto in diritto di consigliarlo e richiederlo, si temperava dall’ammonizione, non che dal rimprovero; contento di farmi avvertito de’ miei difetti o con silenzio non imbronciato, o con una vereconda e sapiente parola.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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