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      Egli sentiva sì naturale il bisogno di quel che scrivendo disse equilibrio della scienza con la virtù, che, avendogli ne’ prim’anni un maestro date gran lodi e promessagli fama, il giovanetto fu scontento che non gli si promettesse piuttosto facoltà di giovare. Or veggasi se tale uomo potesse mai mendicare le lodi degli uomini. Vero è che anco i grandi, anco i buoni, in momenti di dubbio o di afflizione ricevono di buon grado una parola di lode, come consiglio e conforto, come indizio del buono effetto che produce in altrui la lor opera e la parola, come stimolo a fare più e indirizzo a fare meglio, come testimonianza resa non a loro ma a quel Bene e a quel Vero ch’eglin veggono splendere sopra se anzi che in sè, come significazione d’affetto: e però ne sentono gratitudine e verso Dio autore del merito, e verso l’uomo che li ha giovati togliendoli da un’incertezza la qual risicava di diventare orgogliosa più dell’orgoglio stesso, e ritardarli o sviarli. Or la gratitudine è di per sè cosa modesta; nè il superbo o il vano la provano, che tengon debito a sè ogni onore e vantaggio, e non riscuotono mai tanto da altrui, che non si figurino tuttavia creditori. In questo rispetto il compiacersi della lode è lecito e debito: ma gli spiriti alti e gentili s’avveggono alla prima dove la lode pecchi d’eccesso, e se n’adontano più che altri della lode manca; e quella accolgono come offesa fatta alla verità, offesa fatta alla coscienza loro propria e alla coscienza del lodatore mal capitato, il quale si mostra o credulo giudice egli medesimo, o, ch’è peggio, perfidamente credulo alla credulità del lodato, e par voglia tendergli insidie puerili.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





Vero Dio