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      Anco nella lode meritata, anco nella minore del merito, può essere eccesso quando il lodatore non n’abbia coscienza, quando non sappia trovare le parole appropriate, o le smentisca con quegli atti della persona che la simulazione o la dissimulazione non può nè comporre nè ascondere, e che agl’intelligenti parlano assai più della stessa parola. Non dico delle lodi triviali, delle goffe, delle sbadate, delle superbamente dispensate come largizione o come elemosina, delle fredde, delle affettate; di quelle che intendono esaltare l’uomo per il difetto ch’egli ha appunto voluto evitare, e queste ultime sono di quelle che mortificano più, perchè o turbano il giudizio, o dimostrano che il giudizio altrui è miseramente falsato, e imperfetta del bene, non che l’operazione, l’idea. Lodi tali, se l’uomo buono le conosce insidiose, le accoglie come lo spassionato e l’esperto osserva i vezzi di donna galante che tenda a incalappiarlo, e si creda averlo inebbriato delle sue moine, e non vede chi è il gabbato de’ due: se poi in lodi tali il buono non ci conosce altro che inscienza del conveniente e che grossa semplicità, le patisce con rassegnazione tra cortese e distratta, e s’ingegna di pensare ad altro, e non le interrompe per non le prolungare, aspettandone finalmente la fine. Questo anche al Rosmini accadeva talvolta; ed era sofferenza quello che a’ vani poteva parere vanità. Egli soffriva anco i men sinceri, sebbene leggesse loro nel cuore; e indovinava i non buoni, uso a studiare così l’animo come l’ingegno ne’ lineamenti e nelle attitudini, pronto ad accogliere il bene d’onde che gli venisse, e a discernerlo, fatto accorto dalla propria esperienza; ma pronto altresì a ripararsi dal male ch’egli conosceva e per l’istinto provvido che i buoni n’hanno, e per lo studio fatto su i movimenti delle azioni umane e sulle coscienze, e per l’esame de’ suoi stessi difetti, de’ quali nessun uomo va senza, e che sono i germi del vizio e del misfatto, siccome Socrate confessava e il Cristianesimo divinamente chiarì.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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