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      E confesserò che una volta nella prima gioventù vedendo un suo concittadino di belle speranze non corrispondere alle sue cure, preso da zelo inesperto, gli rammentò con modestia qualcosa di quanto egli aveva fatto per esso, non per umiliarlo ma per riscuoterlo, sentendo forse con chi avesse che fare, e accomodando al temperamento il rimedio. E questo trascorso di zelo perdonabile ad uomo sì severo in sè stesso, io non ne so in tutta la vita sua che quest’unico esempio, il quale fa tanto più notabile la sua temperanza di poi, quando la cresciuta autorità poteva dargliene pretesto, e la virtù farsi quasi tentatrice a sè stessa.
      Ch’egli dovesse in ciò temperare l’indole propria e la brama del meglio, e l’amore del Vero chiaramente veduto, ce l’indica una sua disputa giovanile, alquanto acre intorno alle opinioni di Gian Domenico Romagnosi, le quali egli del resto non giudicava dietro a induzioni lontane e a forzate interpretazioni, ma sì mettendo accanto l’uno all’altro i luoghi che meno ambiguamente contengono quelle idee, dall’affettata improprietà e dalla inutile novità del linguaggio fatte a chi più profonde e a chi più leggiere, a chi più rette e a chi più torte che forse non fossero nella sua mente. Il Rosmini, che amava le cose chiare, riducendo le idee altrui a quella chiarezza che non avevano, pare talvolta a’ passionati o a’ pregiudicanti che voglia a bello studio svisarle facendole spropositate. Ma egli che da un principio deduceva le conseguenze con severità inesorabile a sè non meno che ad altri, e così metteva alla prova le proprie dottrine e le altrui, vedendo in certe proposizioni il germe d’errori funesti alla vita, dal germe svolgeva la pianta, e pareva che alle intenzioni dell’autore imputasse tutte le deduzioni possibili, alle quali se il povero uomo poneva mente, ne avrebbe inorridito o riso egli stesso.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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