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      Il Rosmini che e ne’ colloquii e negli scritti si ratteneva dalle soverchie significazioni anco della stima più profondamente sentita, è ben da credere che non profondesse le lodi per accattarsi lode, e che non degnasse adulare nessuna delle passioni e de’ pregiudizi correnti o per ambizione o per timidità o per quel riguardo umano che può parere rispetto debito alle persone e arte di fare accettabile il vero. Era fin da’ primi anni suo detto, che lo scrittore dee mettersi alla testa del suo secolo, non alla coda. Vero è che certi pregiudicati spregiatori di quelli ch’e’ chiamano pregiudizii, prendon talvolta la coda del secolo per la testa: ma qui non è luogo a una questione che diventa di fisiologia, anzi di prospettiva. E quanto al Rosmini e a’ suoi pari, dico che quello, oltre all’essere prova di virtù e di coraggio, è eziandio accorgimento, non nell’intenzione loro ma nell’effetto; e che quanto meno cercata tanto più obbediente, quanto più tarda tanto più piena e durevole, segue ad essi la gloria. Certamente la fama inuguale al merito ma ben alta che venne al Rosmini vivente, non gli fu guadagnata nè dalla facilità de’ suoi scritti nè dalla condiscendenza a’ gusti del tempo nè dal servile chinarsi alle altrui fame, già grandi, con le quali egli, quando la verità gli paresse richiederlo, s’affrontò.
     
     
     
      XXVII.
     
      Riprese sul serio Ugo Foscolo di quel suo declamare intorno alla speranza che pasce d’illusioni l’uomo dannato a illudersi sempre: che se sistema fosse, l’avrebbe creato per celia e a fine di moralità il buon Gaspare Gozzi, attribuendolo in due versi a Circe, la trasformatrice nota degli animali noti.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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