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      - e il Rosmini fu sì poco adontato o sgomento della celia, che la ridiceva sorridendo, e lodando forse soverchio il Mabil per quella sua non invenusta ineleganza di scrivere, nella quale il giovane intelligente discerneva forse più belle disposizioni d’ingegno e d’animo viziate da tempi.
      Nel 1820 il padre gli muore lasciando a lui più che all’altro figliuolo suo, buono e degno anch’esso, ricca eredità, la quale non valse che a confermarlo ne’ propositi fatti. E acciocchè la cura di quella non lo distraesse, la Provvidenza gli destinava, più prezioso delle eredità stessa, un cugino, il conte Salvadori, che gliela amministrasse con quella generosa pazienza che dona l’affetto; uomo tanto amico al Rosmini e unanime a lui, che, toccata quell’eredità a un prete estraneo, egli prosegue ad amministrarla come per il cugino vivente, senza che questi nel testamento gli lasci o memoria o parola di riconoscenza, inutile tra anime tali. Ma ben meglio che l’uso predestinato della sua rendita, allora di venticinque mila franchi all’anno, e cresciuta poi, ben meglio prova le sue intenzioni il viaggio di Roma nel 1822, quando accolto cordialmente dallo Zurla e dal Cappellari, prelati fautori de’ Veneti, e in via di crescere come il tempo mostrò, e invitato a rimanersene in Roma, non volle, ma ritornò a fare il vice-parroco in un paesello del suo Rovereto. Non solamente la voglia di lucri e di preminenze e la vaghezza di colori più o meno rossi, e la brama di fama poteva allettarlo, ma gli stessi suoi desideri di bene, l’amore della scienza, la gratitudine agl’invitanti, l’obbedienza a’ superiori, il desiderio di poterne meglio conoscere la volontà più vicino e di meglio giovare con la parola e l’esempio e il nome e la mediazione alla Patria e alla Chiesa, potevano farglisi tentazioni sante.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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