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      E’ grave schifarlo, e S. Paolo il piangeva specialmente in quel bellissimo tratto che egli chiude con dire: infelice me, chi mi libererà da questo corpo di morte? Ora che avremo da dire noi altri? O caro, chi sa? chi sa?... in un mio sonetto ho scritto, e forse a questa adatto, questi tre versi (parlo al Signore):
      Sì, già la pietra ch’ogni uom tiene inettaAd ogni lavorio, lustra e polita
      Fu del tuo tempio per colonna eletta.
      «Iddio ha scelto i men dotti secondo il mondo per confondere i dotti, ha scelto i più vili e spregevoli secondo il mondo e ciò che era un niente, per distruggere ciò che vi era di più grande, affinchè niuno si glorî innanzi a lui? Ma dove trascorro io inavvedutamente? Torno tosto a noi». Qui lo vedi che s’affaccia all’avvenire, e si ritrae sbigottito del tempo, e dell’eterno, e di sè
      . . . . . . . . magnum si pectore possitExcussisse deum . . . . . . .
      In questa lotta coll’Angelo suo pareva a lui che il suo cuore fosse freddo e spento, l’intelletto restìo e tardo, l’animo piccolo e neghittoso. Questo doppio sentimento d’umiltà e di grandezza apparisce in un suo libro scritto dell’età d’anni sedici, sul fare di quel di Boezio: dove intende studiare la legislazione ch’è porta nel cuore, e raccogliere il bello e il nuovo delle cose pensate, assoggettando fin d’allora alla Chiesa i suoi pensamenti, pronto a rivocare tutto quello in che per ignoranza fallasse; e ivi ingiunge a sè stesso di far tacere lo spirito della vanità, e ridice i noti versi di Dante sulla futilità della fama.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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